Ritengo di avere un buon sesto senso per i film, poiché, quando devo sceglierne uno da guardare, spesso capisco dalla prima occhiata se quel film mi potrebbe piacere o meno, se sarà un film tanto per passare piacevolmente il tempo o entrerà a far parte dei miei preferiti. Sebbene con i libri tenda a prestare molta più attenzione, quando ne prendo in biblioteca tendo ad essere ugualmente impulsiva, recuperando spesso quante più opere possibile dell’autore, nel tentativo di spaziare fra la sua bibliografia per avere una panoramica più completa sul suo lavoro. Fu così che Il nostro quartiere di Nagib Mahfuz finì fra le mie mani.
Parlare di questo volume non è semplice e, nonostante mi sia scritta qualche appunto come linea guida, mi ritrovo incerta su come procedere. La causa è da individuare nella struttura del libro, che mi ha vagamente ricordando quella di “Le città invisibili” di Calvino. Infatti, “Il nostro quartiere” non è definibile né come un romanzo, poiché manca una trama unitaria, né come una raccolta di racconti; lo definirei una sorta di ibrido fra le due cose. Il narratore rimane il medesimo dalla prima all’ultima pagina, tuttavia ogni capitoletto, ve ne sono settantotto, racconta la storia di un abitante diverso del suo quartiere. In un primo momento, il lettore ignaro (leggi: che non legge la quarta di copertina) potrebbe facilmente essere tratto in inganno, perché nella prima parte del romanzo pare delinearsi una storia unitaria, che si concentra attorno all’infanzia del protagonista, alla sua famiglia e ai fatti della rivoluzione del ’19, l’unico argomento che tiene occupati più capitoli solo per sé e che ritorna più volte attraverso le parole dei personaggi. Non si tratta che di un abbaglio, perché in modo cauto e graduale, passando attraverso descrizioni di suoi compagni di scuola e di giovani amori, il lettore si ritrova immerso in una struttura narrativa assai diversa da quella che si aspettava inizialmente, nella quale ad ogni personaggio non viene concessa più di una pagina. Si tratta di biografie molto coincise ed essenziali, narrate attraverso gli occhi del bambino e risultato di avvenimenti ai quali ha assistito in prima persona oppure che ha udito da altri abitanti del quartiere. La linea risulta assai sottile, se consideriamo che il pensiero del narratore non traspare mai durante la narrazione; basti considerare che il suo nome non viene mai rivelato. All’opposto, durante la lettura è impossibile dimenticare che il personaggio narrato agisce e si muove all’interno del quartiere del Cairo, poiché gli occhi e le orecchie dei suoi abitanti sono sempre all’erta e pare di vederli, da dietro gli stipiti delle finestre o sulla soglia di casa, mentre spiano di soppiatto gli avvenimenti circostanti.
Il numero di personaggi analizzati è assai ampio e raramente nomi conosciuti rifanno la loro comparsa sulla pagina. Vi è una nota di tristezza e di fatalismo, alla base di ognuna di queste brevi biografie. Una pennellata veloce delinea le loro vite, ma appare subito chiaro come nessuno di loro sia infine riuscito a raggiungere la piena felicità. Una storia in particolare narra dell’amore fra due giovani, i quali tuttavia, a causa di conflitti fra le rispettive famiglie, non possono sposarsi. Alla fine, la vita li allontana, ma lui non dimentica il volto della sua amata, mentre lei gli rimane per anni fedele, in attesa. Dopo anni, ormai vecchi, il loro sogno si avvera, ma soltanto dopo indicibili sofferenze patite.
Perfino qui vi è malinconia e rimpianto, come se lo scrittore volesse dirci che la felicità è un conquista che passa attraverso il dolore, e mai sarà totale. Sotto gli occhi del lettore scorre la vita del quartiere, con i suoi abitanti, i futuwwat che impongono il loro potere sul quartiere con la forza, dando protezione ma mai gratuitamente, i mendicanti e i pazzi, la miseria, uomini che cercano la ricchezza, quartieri in lotta tra loro, padri che piangono i figli, temporali, donne che rifiutano di sposare chi non amano, altre perseguitate dal fato.
Vi è un quid di fantastico, lungo la narrazione. Nulla di consistente, è più una traccia costante che segue i personaggi attraverso i vicoli del Cairo. Questa nota magica è impersonata in primo luogo dal Grande Vecchio, derviscio che abita nel monastero ai limiti del quartiere, costruzione un tempo isolata nel deserto, ma che ormai le case hanno raggiunto. Il libro si apre e si chiude con lui e con le domande del narratore, curioso di rivedere questo strano figuro, che già aveva visto nell’infanzia, senza sapere se fosse sogno o realtà, e i cui contorni si sfumano nella leggenda.